I Trabocchi.. raccontati da D’Annunzio

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I Trabocchi.. raccontati da D’Annunzio

Le origini dei trabocchi, si perdono nella notte dei tempi. La prima testimonianza, c’è  in un manoscritto risalente al 1400, ritrovato nell’abbazia di San Giovanni in venere, a Fossacesia, dove Padre Stefano Tiraboschi, parlando di Pietro Da Morrone ( vissuto nel 1.200), uscendo dall’abbazia, poteva ammirare la costa “ punteggiata” dai trabocchi. Ma le leggende e i racconti popolari, raccontano di un origine un po’ più recente, ovvero nel 1600, quando famiglie Sefardite ( ebrei spagnoli), si stabilizzarono in quei luoghi, e a seguito di un forte maremoto, ingegnarono questo sistema per poter pescare senza essere costretti ad andare in mare aperto.

Oggi i trabocchi non vengono più utilizzati per lo scopo originario, ma fungono da vere e proprie attrazioni turistiche. Il primo a notare e raccontare della loro bellezza non poteva che essere Gabriele D’Annunzio.

Si racconta che il Vate, percorreva lunghe passeggiate, da Francavilla o Ortona, durante le quali amava fermarsi ad osservare il mare, e scrivere. Ma nell’estate del 1899 soggiornò per 2 mesi, in un casolare di San Vito Chietino , oggi noto come “ eremo dannunziano”, con la sua amante Barbara Leoni. Il casolare era costruito su un costone a ridosso sul mare, e sulla spiaggia sottostante, vi era la presenza di un antico trabocco. Si trattava di quello che oggi viene chiamato “ Trabocco Turchino”.

Qui D’Annunzio trova l’ispirazione per scrivere il suo romanzo “ Il trionfo della morte”, nella quale non si limita a descrivere alla perfezione i particolari della struttura, ma riesce a carpire anche la poesia che questo trasmetteva, fino a descriverlo “anfibio antidiluviano”. Per D’annunzio, il trabocco aveva vita propria, e osservandolo erano evidenti i segni del tempo, le tante battaglie intraprese contro il mare.

Scrive il Vate:

La lunga e pertinace lotta contro la furia e l’insidia del flutto pareva scritta su la gran carcassa per mezzo di quei nodi, di quei chiodi, di quegli ordigni. La macchina pareva vivere d’una vita propria, avere un’aria e una effigie di corpo animato. Il legno esposto per anni e anni al sole, alla pioggia, alla raffica, mostrava tutte le fibre, metteva fuori tutte le sue asprezze e tutti i suoi nocchi, rivelava tutte le particolarità resistenti della sua struttura, si sfaldava, si consumava, si faceva candido come una tibia o lucido come l’argento o grigiastro come la selce, acquistava un carattere e una significazione speciali, un’impronta distinta come quella d’una persona su cui la vecchiaia e la sofferenza avesser compiuto la loro opera crudele.”