Vito Taccone non è stato semplicemente un ciclista, ma un icona, esempio simbolo dell’ “abruzzesità”, figura pura, sincera e ribelle, figlia del sacrificio.
Taccone nacque ad Avezzano nel maggio del 1940, da una famiglia molto povera. Rimase orfano di padre e sin dalla tenera età il piccolo Vito è stato costretto a lavorare per aiutare la propria famiglia, dapprima come pastore, poi come garzone in un forno: era addetto alle consegne. Al mattino si incamminava presto, per consegnare il pane alle botteghe e trattorie, un giorno perse la corriera che lo avrebbe portato a Capistrello, decise così di caricarsi in bici ben 80 kg di pane e di effettuare le consegne, in bici. Sulla salita del Salviano fu notato da Enrico Eboli, vecchio ciclista abruzzese, che non potette fare a meno di notare il talento del giovane Taccone. Eboli gli diede una grossa mano e lo inserì nel mondo delle corse.
Taccone esordì tra i professionisti nel 1961, era un fuoriclasse della salita, di lui si scrisse che “ azzannava i tornanti come un predatore”, per gli amanti sportivi diventò presto “ il camoscio d’Abruzzo” per le sue doti innate di scalatore. Nel 1961, da neoprofessionista vinse il giro della Lombardia, facendosi notare anche al giro d’Italia, vincendo la maglia verde di miglior scalatore. L’anno seguente trionfò al giro del Piemonte, e si piazzò quarto alla classifica generale della corsa rosa. Fu il 1963 a consegnare Vito Taccone alla storia del ciclismo italiano: il camoscio d’Abruzzo vinse 5 tappe consecutive al giro d’Italia. Questo gli permise di vincere per la seconda volta la maglia verde di miglior scalatore ed ottenere il piazzamento finale del sesto posto. L’Abruzzo che si affacciava timido al boom economico italiano, aveva il suo eroe. Taccone era amato da tutti, e tutti lo acclamavano come simbolo di un’intera regione.
Sarebbe troppo riduttivo quindi parlare di Vito Taccone, riferendosi esclusivamente ai suoi tanti successi sportivi, lui è stato molto di più di corridore, è stato un personaggio sincero, che non ha mai nascosto le sue debolezze. Come quando nel 1964, durante una tappa dell’unico Tour de France da egli disputato, scese al volo dalla bici, per litigare e prendersi letteralmente a pugni con il ciclista spagnolo Fernando Manzaneque, colpevole di aver rubato all’abruzzese del ghiaccio da egli preso al rifornimento e rotto incautamente dallo spagnolo, in gara.
Taccone era un personaggio televisivo. Praticamente ospite fisso del processo alla tappa di Sergio Zavoli. Lo stesso Taccone racconta che il conduttore, durante la trasmissione era solito posizionare il suo piede vicino a quella del ciclista. Quando riteneva opportuno gli dava dei colpetti: quello era il segnale che il camoscio d’Abruzzo poteva intervenite con le sue osservazioni pungenti e mai banali, che il pubblico adorava.
Era un personaggio a cui tutti portavano rispetto, persino il grande Eddy Merckx, glie lo dimostrò. Un giorno il giro arrivava in Abruzzo, a Silvi Marina, il campionissimo belga vestiva la maglia rosa, ma sapeva che Taccone ci teneva tantissimo a vincere la tappa. Quando l’abruzzese scattò, il belga non rispose all’attacco, esclusivamente per permettergli di vincere la tappa. Taccone, però sul traguardo arrivò secondo e Merckx perse addirittura la maglia rosa. Di quell’episodio l’abruzzese ricorda “ probabilmente Merckx bestemmiò in fiammingo quando gli dissi di non aver vinto”.
Taccone lascia le corse a 30 anni, con un bottino di 27 vittorie e tanti aneddoti da poter raccontare.
Ad Avezzano mise su un angolo di paradiso, dove allevava animali, coltivava il terreno, avviò la produzione dell’ “Amaro Taccone” e una linea di abbigliamento sportivo che portava sempre il suo nome.
Taccone probabilmente era rissoso, irascibile, ma anche onesto, leale e sincero. Per questo motivo quando nel giugno del 2007 la guardia di finanza lo arrestò con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al commercio di capi di abbigliamento con marchi contraffatti, iniziò una nuova battaglia: quella con la giustizia. I fatti dicono che Vito Taccone affittò un capannone ad un azienda che realmente produceva merce contraffatta. Questo però non voleva assolutamente dire che era complice dei delinquenti, così il Camoscio D’Abruzzo si rialzò ancora una volta sui pedali, non per combattere una dura salita, ma la magistratura.
Si incatenò dinanzi al tribunale di Avezzano, chiedendo di essere processato al più presto, per poter dimostrare la sua innocenza. “ Non voglio fare la fine di Enzo Tortora”, diceva Taccone. Purtroppo però il suo cuore non resse questo sforzo, soprattutto emotivo, e nell’ottobre dello stesso anno, Vito Taccone morì stroncato da un infarto.
La storia oggi ci riconsegna un Vito Taccone abruzzese vero :”forte e gentile”, che sin da bambino ha dovuto lottare per poter vivere. Un abruzzese che si è saputo distinguere a livello internazionale. Un uomo schietto e sincero con solide basi morali. Signore e Signori, Vito Taccone, il Camoscio d’Abruzzo.